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Sogni......

Ultimo Aggiornamento: 12/02/2016 14:55
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09/02/2016 19:50

A volte i sogni vengono ricordati al risveglio, raramente si mettono nero su bianco.....


"L’ULTIMO VOLO DEL GOBBO MALEDETTO"

Premessa
Il Savoia Marchetti SM 79 era chiamato dagli Alleati "Il Gobbo maledetto" perché ricurvo e perché i suoi piloti erano estremamente determinati.
L’impressione che tutto sia reale e veritiero è dovuta al fatto che la vicenda si snoda un una situazione che tutti avremmo voluto risolvere in varie maniere.
Anche così.

l ministro della Difesa lo aveva convocato per lunedì della Settimana Santa.
La richiesta era piuttosto strana.
Lui, veterano della Seconda guerra mondiale, era sempre rimasto in contatto con il Ministero della Difesa.
Lo invitavano ad ogni compleanno, lo vezzeggiavano e si facevano raccontare per l’ennesima volta qualche aneddoto legato al suo passato da pilota della Regia.
L’aereo era il trimotore più temuto dagli alleati.
Costruito dalla Savoia Marchetti nel 1934 come aereo passeggeri, portava il nome di «S.M.79 Sparviero», ma ben presto la versione da guerra venne ribattezzata «Gobbo maledetto» dai nemici che lo temevano per le sue capacità di manovra e per la forma particolare della cabina che gli dava quella grinta di aereo ricurvo assatanato sulla preda.
I Tedeschi, a fianco dei quali aveva combattuto, invidiavano quel velivolo che era paragonabile al loro Junkers Ju 52/3m.
Un aereo certamente meno importante, che gli italiani chiamavano «la Ju-Tante», in italiano l’Aiutante e in tedesco la Zia Ju.
Insomma la versione femminea dell’S.M.79.

Comunque sia, si recò a Roma, nonostante i sui 100 anni suonati.
Aveva ancora il brevetto di pilota, ma nessun medico se la sentiva di dargli il nulla osta al volo anche se aveva una salute di ferro.
«E se si sentisse male in volo?» – Gli chiedevano i medici.
«Perché – rispondeva, – ai giovani non può accadere che si sentano male?»
«Certo, ma se si sente male lei mi danno dell’idiota.»
«Corra il suo rischio! È un ufficiale medico!»
Ma non c’era niente da fare, era costretto a volare sempre con a fianco un secondo pilota.
Una badante di volo, una specie di A-Ju-tante…
Per questo accettò di recarsi nuovamente al Ministero.
Forse gli davano il certificato che gli lasciasse fare ancora un ultimo volo.
Beh, ultimo è una parola grossa… Uno degli ultimi, ecco.
Entrambi i suoi figlioli erano già in pensione.
Ma uno abitava nella sua città che lo accompagnava al treno e l’altro, residente a Roma, che lo andava a prendere alla stazione e lo portava dove voleva.
Al Ministero della Difesa, dove altro sennò.
Giunto al N. 11 di Via XX Settembre, scese dalla macchina del figlio e si presentò alla guardia.
Due minuti dopo un ufficiale dell’aeronautica l’aveva già preso per portarlo ai piani superiori.
«Comandante, come sta?»
«Benone. E lo sapete.»
«Comandante, era una domanda di cortesia… Venga, la stanno aspettando.»
Chi lo stesse aspettando, in realtà non ne aveva idea.
Ma stavolta rimase meravigliato.
Il ministro in persona gli venne incontro, mentre due altri personaggi in borghese e uno in divisa dell’aeronautica rimasero in attesa sorridenti.
«Comandante, sono davvero felice che abbia accettato l’invito, – disse il ministro. – Venga, si accomodi.»
Si andò a sedere in una poltrona del salottino, con una certa inquietudine.
Rimase in silenzio.
«Dunque, i miei collaboratori dicono che lei vorrebbe volare da solo, – riprese il ministro una volta seduto anche lui. – Almeno un ultimo volo, vero?»
Gli altri tre sorridevano, annuendo.
Sentiva puzza di bruciato. Non era nato ieri.
Anzi, neanche l’altro ieri, quasi due secoli prima.
«Cosa sta per chiedermi, signor ministro?»
Il politico rimase interdetto per un attimo, ma non era nato ieri neanche lui.
«Io? No. Non sono un tecnico, solo un semplice politico. Però gli amici che sono con me hanno da farle una proposta.»
Sapeva che si trattava di una trappola oceanica, ma sentiva che avrebbe abboccato volentieri.
Il ministro si alzò.
«Io devo lasciarla. Sono onorato di averla potuta conoscere di persona. Il Paese può vantarsi di avere persone come lei.»
Si strinsero la mano e venne portato in una sala più piccola, o meglio più riservata.
«Vedo la trappola e vedo l’esca – disse sorridendo. – Quello che non vedo è la cosa principale, l’obbiettivo. Cosa volete esattamente da un vecchio pilota della Seconda guerra mondiale?»
«Lei pilotava il S.M.79 Sparviero, vero?» – Chiese uno dei due uomini in borghese.
«Sì. – Sorrise. – Il Gobbo maledetto.»
«Lo ha mai pilotato da solo?»
«Una ventina di volte, quando era ferito il mio secondo.»
«Ha mai perso l’aereo?»
«Mai. Sono tornato in fiamme, sforacchiato, senza benzina… Ma l’ho sempre portato a casa.»
«Già, – continuò l’ufficiale. – Mi raccontavano che il capo pattuglia si faceva guidare da lei quando c’era da bucare le nuvole.»
Rise. «Sì, dicevano che ero fortunato. O che avevo naso. Io trovavo la colonna di carri armati tedeschi da rifornire. Atterravamo, scaricavamo il materiale e ripartivamo.»
Il pilota dell’Aeronautica era incerto tra l’ammirazione e l’invidia.
«Abbiamo una richiesta da farle.» – Intervenne il terzo uomo.
«L’avevo capito, (sorrise) Sparate.»
«Abbiamo trovato un altro esemplare di S.M.79 Sparviero. – Disse l’uomo in borghese che fino a quel momento era rimasto in silenzio. – In ottime condizioni.»
Rimase ad ascoltare. Non voleva aiutarli.
«La struttura è perfetta. I motori sono una meraviglia, un’orchestra. I tre motori radiali 126 RC 34 sembrano appena usciti dall’Alfa Romeo.»
«Un’orchestra? – Ripeté. (Era il termine che usavano loro per dire che l’aereo era in perfette condizioni. Sentiva di avere ingoiato l’esca.) – Signori, cosa volete da me?»
«Le chiediamo di visionarlo, provarlo e, se le sembra in grado di funzionare, di pilotarlo di persona fino a portarlo in Italia.»
Il silenzio che seguì fu imbarazzante. Si accorsero di aver fatto il pensiero più lungo del braccio.
«Ehm… Lei ne ha già portato uno in Italia dal Libano, vero?» – Osservò l’ufficiale.
«No, – rispose risoluto. – L’ho trovato, l’ho fatto smontare e trasportare in Italia per il Museo Caproni. Non era in grado di volare.»
«Questo sì, può volare…»
Si alzò in piedi. Era minuto, come si usava un tempo per i piloti, e come aveva accentuato la sua età. Ma era lo stesso autorevole quanto basta per infondere soggezione.
«Signori, non offendete la mia intelligenza. Ditemi tutto in una volta, altrimenti me ne vado.»

l giorno di Venerdì Santo, si era imbarcato in prima classe del volo Alitalia AZ 720, diretto ad Atene. Lì aveva cambiato aereo, imbarcandosi su un 777 di linea che lo portava ad Abu Dhabi, per poi arrivare finalmente a Bombay.
Totale, 11 ore di volo e 5 di attesa in aeroporto.
Avrebbero sfiancato un cristiano, Lui no, era eccitato.
In missione come ai vecchi tempi.
Erano passati circa 70 anni dall’ultima volta…
Al Chattrapathi Shivaji Airport di Mumbay c’era ad attenderlo un’auto dell’Ambasciata Italiana a New Dehli in India, con tanto ai autista in livrea.
«Comandante, ha fatto un buon viaggio? – Gli chiese cortesemente. – La stanno aspettando al consolato di Mumbay.»
Arrivò per ora di pranzo.
Gli vennero incontro l’ambasciatore in persona, il console e i suoi più stretti collaboratori. Tra questi c’era anche Massimo Alfierini, uno dei due uomini in borghese incontrati al Ministero della Difesa. Lo avevano accompagnato dall'ambasciata altri uomini in borghese.
Troppa gente per i suoi gusti.
Il pasto fu cordiale e ricco di portate decisamente piacevoli.
Che però assaggiò appena. Chiese invece di andare a letto nel pomeriggio, perché l’indomani sarebbe stata una giornata difficile.
Cinque ore di fuso orario gli avevano suggerito di limitarsi a fare un’abbondante prima colazione, come se fosse stato all’orario di casa sua. Si alzò poi per ora di cena, che per lui fu il pranzo. Quindi fece quello che corrispondeva al suo riposino pomeridiano.
Alle 3 di mattina si svegliò e, insieme agli altri uomini della partita cominciò i preparativi.
Alle 4 uno spuntino, quello giusto, come se fosse cena.
Alle 5 i bagagli e le carte.
Alle 6 era all’aeroporto privato di Shahrukh.
La pista, poco più lunga di 500 metri, era un aeroporto a tutti gli effetti. Un capannone di lamiera ondulata, o magari di eternit come sospettava qualcuno, era l’unica costruzione.
Quando entrò c’era uno strano viavai di persone, decisamente inusuale per quell’ora e in un posto del genere.
Il comandante venne accompagnato in una stanzetta, dove vennero dispiegate alcune cartine per l’ultima volta.
Poi entrò il motorista, l’uomo di Roma, Alfierini.
«È tutto pronto, comandante. – Gli disse. – Quando vuole…»
«Allora non perdiamo tempo – rispose arrotolando le cartine, – la strada è lunga.»
«Comandante, la Polizia di Mombay deve chiederle qualcosa.» – Intervenne un addetto dell’ambasciata.
Lui e il suo motorista uscirono.
«Sono il comandante.»
«Comandante, ci hanno informati che lei vuole fare un volo di prova con il vecchio velivolo che c’è qui fuori.»
«Esatto.»
«Ehm, comandante, è sicuro di quello che fa?»
«La spaventa la mia età? – gli domandò con sicurezza. – Sono l’unico a poter far volare questo rottame.»
«Ehm, sì signore. No, scusi. Però, sa… C’è un centro abitato. Non è che sarebbe meglio se fosse affiancato da un pilota… più giovane?»
Si trattenne a stento.
«Ecco, questo è il mio brevetto, rinnovato una decina di giorni fa, con tanto di certificato medico.»
Glielo avevano miracolosamente dato.
Era una condizione sine qua non.
«Comunque sia, c’è con me il signor Alfierini. – Lo indicò. – È lui il mio secondo.»
Era una balla. Alfierini era solo un esperto meccanico e ottimo restauratore di motori d’epoca.
«Volete fare anche voi un giro con me sulla città? – Chiese ai due poliziotti, sfidando la sorte. – Faccio solo un giro di prova per vedere se funziona, se vale la pena acquistare l’aereo.»
«No no, per carità. Ma è sicuro che questo… affare… voli?»
«Questo è un SM 79, Sparviero, detto Gobbo Maledetto. – Rispose con una certa fierezza. – È un esemplare del 1939, versione lancia siluri. Ha 22 anni meno di me.»
«Porta anche i siluri?» – Rise volgarmente il più grasso dei due poliziotti.
«No, però ho bisogno di altri due passeggeri per equilibrare il peso dell’equipaggio standard del velivolo. »
Fece cenno a due italiani che stavano guardando la scena.
«Forza ragazzi, salite a bordo che si parte, – gridò loro. – Ambasciatore, sale anche lei?»
«Io? Ehm, no…»
I due poliziotti risero.
«Allora se ne vada.»
L’ambasciatore si rabbuiò, salì sulla limousine e tornò in ambasciata.
I due passeggeri improvvisati invece salirono a bordo.
Salutò i poliziotti e salì a bordo, chiudendo il portellone dietro di sé.
Dopo una decina di minuti si accese il primo motore, poi seguì il secondo e infine quello centrale.

Erano magnifici.

Aveva ragione il motorista.

Era un’orchestra dell’Alfa Romeo.

«Signori, si parte per Tipperary!» – Era un vecchio rito scaramantico che usavano quando partivano per una missione piuttosto lunga: cantavano la canzone del nemico: "It’s a long way to Tipperary"...
I due ospiti si erano seduti in carlinga, il motorista si era messo a fianco del pilota.
Guardò tutte le strumentazioni di bordo, provò i flaps, mosse la cloche, gli impennaggi erano leggerissimi. Sembrava perfetto.
«On y va?»
«Allons!»

Con un fantastico ruggito, i motori andarono al massimo liberando gli oltre 2500 cavalli e dopo un po’ il pilota lasciò andare i freni.
Il guidone segnalava un vento al traverso di babordo, ma la pista era una sola. Nessun problema.
Partì e tutto gas e dopo solo un paio di centinaia di metri l’aereo si sollevò da terra, lo portò contro il vento di babordo, sollevandolo come un fuscello.
«Niente radio, mi raccomando! – Gli ricordò il motorista. – Rotta?»
«Mai usata la radio. Rotta 270, 2-7-0. Ovest. Oceano indiano.»
«A questa velocità saremo fuori dalla acque territoriali in un’ora.»
«In 35 minuti, – precisò. – Ma proseguiremo per un’ora. Non mi fido degli indiani nella misurazione delle acque territoriali…»

Era rinato.
L’età lo aveva rallentato un po’ in tutto.
Mangiava appena, dormiva poco, parlava piano, si muoveva con delicatezza.
Ma ora che si trovava al comando del suo vecchio apparecchio era tornato il giovanotto di una volta.
L’adrenalina gli stava facendo da supporto biologico.
Sapeva che non poteva durare molto con quella pressione, ma era tornato il suo momento.
Una mezzora dopo era sull’Oceano indiano.
Lui non aveva fatto l’aerosilurante ma il bombardiere.
Per un pilota militare italiano in guerra, comunque, il mare era la riserva di caccia. E conosceva alcuni trucchi.
«Comandante, non voliamo troppo bassi?» – Gli chiese il motorista.
Sorrise.
«I motori devono lavorare un po’ di più a soli mille piedi, – ammise. – Ma dall’alto è più difficile vedere l’S.M.79.»
«Come fa a dirlo?»
«Non ha guardato la colorazione superiore della livrea? È dipinta con un bel colore azzurro chiaro che si confonde col mare. È per renderlo invisibile ai caccia della RAF.»
«Della RAF? Ah scusi, dimenticavo…»
«Già. L’ultima volta che ho pilotato uno di questi, incrociai uno spitfire…»
«E l’ha mancato?»
«Io? Ha ha! No, non gli abbiamo sparato. Era lui che voleva abbattere noi.»
«E non vi ha colpiti?»
«Non ci ha sparato. Ci ha salutato sbattendo le ali come si faceva tra amici, o tra nemici quando non si avevano più munizioni…»
La radio gracchiò qualcosa.
«Posso rispondere, comandante?» – Chiese il motorista.
«Non ci hanno ancora chiamato. E la radio di bordo non funziona.»
«Lo so, ma come mi devo comportare?»
«Usi la radio che le hanno dato, ma solo tra un quarto d’ora. Per ora si limiti ad ascoltarla.»
«Gobbo Maledetto, qui Notredame. Potete rispondere?»
«Aspetti 10 minuti.» – Ordinò.
Entrò in cabina il più giovane dei due passeggeri.
«Comandante, abbiamo visto degli aerei da caccia in quota. – Disse. – Ci stanno cercando.»
«Che rotta avevano rispetto a noi?»
«Ore 3…»
«Si muovono alla cieca…»
Proprio in quel momento però un jet li superò a prua. Cabrando velocemente per evitare l’impatto con l’oceano.
«No, ci hanno individuati.»
«Cosa facciamo, comandante? Non abbiamo armi di bordo…»
«Preparatevi a finire in mare. – Rispose – Se necessario so ammarare anche senza motori.»
«Non è consolante…» – Disse il motorista.
«Invece che lamentarsi, può darmi la posizione del nostro aereo?»
Il secondo guardò la carta.
«Ehi, siamo fuori dalle acque territoriali indiane da una decina di miglia!»
«Non significa nulla, – disse il passeggero. – Quelli se vogliono ci sparano lo stesso…»
«Sistematevi e legatevi bene con le cinture di sicurezza.»
Sperava di aver calcolato giusto. Dopo un minuto diede gas ai motori e alzò il muso dell’aereo, salendo sulla dritta, verso nord-nordovest.
Una serie di missili aria-aria andò a schiantarsi in mare sollevando spruzzi d’acqua.
«Sanno benissimo di non poterlo fare… Siamo in acque internazionali!»
Non disse niente.
Abbassò la prua e si portò molto vicino al livello del mare.
Immaginò gli spruzzi che sollevava.
L’aveva fatto una volta per farsi vedere dalle ragazze che prendevano il sole in spiaggia in Dalmazia.
Più basso di lui aveva volato un suo amico, che aveva toccato la superficie con l’elica del motore centrale.
Aveva dovuto fare un ammaraggio di emergenza, ma lo fece così bene che, se i superiori gli diedero un mese di consegna, il comandante della Squadriglia l’aveva voluto con sé perché aveva dimostrato di saper cadere.
Lui no, non perdeva il suo aereo.
Mai.
Non l’avrebbe perso neanche stavolta.
«Mi dà la posizione di November Kilo 6 Papa?» – Chiese al motorista.
Lui lo guardò interrogativo.
«La chieda via radio.»
«Ah, ecco.»
Prese la radiolina che gli avevano dato.
«Qui Sparviero…»
«Gobbo maledetto!» – Lo corresse.
«Qui Gobbo. November Kilo 6 Papa, mi senti?»
Stava per ripetere, ma Lui lo fermò.
«Ci hanno sentito, aspetti che il comandante gli dia ordine di rispondere.»
Dopo un po’ la radio gracchiò.
«Qui Notredame. Cosa vuole il Gobbo da NK6P?»
«La sua posizione.»
Passarono 60 secondi, poi giunse la risposta. E il motorista non si fece dare ordini e guardò la carta nautica.
«La stiamo per raggiungere. Al massimo 3 minuti. – Rispose. – Ma non possiamo atterrare su una portaerei con questo… reperto!»
Non rispose.
La presenza della portaerei Cavour non serviva certamente per atterrarvi, ma bastava che fosse lì.
Quando la vide all’orizzonte, iniziò ad alzare l’aereo.
Il pericolo non c’era più.
Gli Indiani avevano bisogno di tutto fuorché di un combattimento con un aereo d’epoca italiano, al cospetto di una portaerei italiana.
Sicuramente la Cavour non avrebbe alzato in volo gli Harrier, ma la sua presenza era una garanzia contro le concezioni piuttosto labili sul diritto internazionale degli indiani.
Quando sorvolò la portaerei, sbatté le ali in segno di saluto. Allora puntò verso nord. Era come se avesse fatto il punto.
Alfierini, per favore mi dà la rotta per Karachi?»
Intanto aveva comunque già cominciato la virata a dritta.
Alfierini scartabellò, prese il goniometro e gli diede la rotta.
«348 gradi Nord.
«Se è 348, è nord per forza.»
Dopo due ore arrivarono in posizione.
«Chieda a Notredame il permesso di chiamare la torre di controllo di Karachi.»
Dopo qualche scambio di messaggi, il motorista cambiò lunghezza d’onda e chiamò in inglese la torre di controllo dell’aeroporto internazionale Jimmah di Karachi.
«Vi abbiamo inquadrato, – disse la voce in inglese. – Conoscete l’aeroporto?»
«No, però il pilota l’ha studiato.»
«Allora gli dica di prendere la pista 13. Direzione sud-sudovest.»
Guardò automaticamente l’orologio. Era tarda mattinata, ora della brezza di mare.
«Che diavolo di aereo avete?» – Chiese l’operatore.
«Un trimotore a elica.»
«lo vedo, – rispose la voce. – Ma non ne fanno più trimotori a elica...!»
«Lo so.»
E così, al momento dell’atterraggio, pur avendo seguito le istruzioni alla perfezione, notarono che lungo la pista avevano dislocato gli automezzi dei vigili del fuoco… Bella fiducia.
L’atterraggio avvenne senza problemi e un’auto corse all’aereo prima ancora che si fermassero i motori.
Scese un uomo.
I due passeggeri aprirono il portello e quello salì a bordo.
«Come sta comandante?» – Gli chiese affabilmente l’uomo, che era italiano, non appena infilata la testa in cabina.
«Bene grazie». – Rispose alzandosi per scendere e sgranchirsi le gambe.
«La nostra idea è di fare il pieno immediatamente e ripartire il più presto possibile, – disse l’uomo. – Sono consigliere d’ambasciata e devo dirle che c’è un certo intreccio di messaggi allarmanti.»
«lo immaginiamo. – Rispose il comandante. – Non abbiamo fatto dogana… ha ha!»
«Avanti allora. – Indicò il piccolo automezzo appena arrivato per fare rifornimento. – Posso fare il viaggio con voi?»
«Anche lei non vuole fare dogana?»
«Beh, ho il passaporto diplomatico, ma se mi accettate mi semplificate la vita…»
Tra una cosa e l’altra l’aereo ripartì alle 15.
Nessun problema con le autorità, ma il riuscire a prendere l’autorizzazione al decollo richiese più del previsto.
Ne aveva approfittato per riposare.
Era l’ora in cui a casa sua dormiva più facilmente.
Quando si svegliò era fresco come una rosa.
In confronto agli altri, che avevano meno della metà dei suoi anni, era decisamente un fenomeno.
Appena giunto in quota, stavolta a 5.000 piedi, il motorista gli diede la nuova rotta.
«3-3-5 per 100 miglia, poi 3-5-5. Quasi nord.»
«Quota delle montagne?»
«Siamo vicini al tetto del mondo… – Rispose titubando. Il K2, seconda montagna più alta del mondo, è in Pakistan. – Ma il passaggio è stato previsto risalendo l’unico fiume dell’Afghanistan che si butta nell’Indo, il Kabul. Porta il nome della capitale.»
«Quota?»
«La vallata del Kabul è stretta, ma il fiume non supera i 1.800 metri di quota.»
«Allora ci portiamo a 6.500 piedi.»

’aereo impiegò un po’ a raggiungere la quota voluta, consumando più del previsto e affaticando un po’ i motori, che non erano proprio freschi di rodaggio… Il motorista espresse un po’ di preoccupazione, ma quando il diplomatico italiano salì in cabina, entrambi evitarono di mostrare problemi.
«Tutto prosegue come si deve?» – Chiede il nuovo passeggero.
«Siamo un po’ più lenti del previsto, ma tra due ore entriamo nel cielo dell’Afghanistan.»
«Bene allora. A carburante come stiamo?»
«Non si preoccupi, – disse il pilota, con una battuta che usava in guerra. – A terra si arriva sempre…»
L’uomo si ritirò in carlinga.
Come previsto, alle 18 - ormai la luce era rimasta solo a occidente - passarono il confine del Pakistan con l’Afghanistan. Il motorista informò i passeggeri infilando la testa nella botola.
«Tra altre due ore arriviamo.»
«Abbiamo abbastanza carburante?» – Domandò di nuovo il diplomatico.
«No.»
Scoppiò il silenzio.
Dopo meno di due ore, mandò a chiamare il diplomatico.
«Non ce la facciamo ad arrivare a Herat. – Gli disse indicando la freccia dei serbatoi. – Prenda la radio e faccia sapere a Notredame che atterreremo tra un’ora a Shindand.»
«A Shindand? Ma ce l'avranno un aeroporto?»
«Non ne ho idea. Ma è lì che atterreremo, perché è la prima base raggiungibile di pertinenza italiana.»
Il diplomatico parlò a lungo con i suoi, mentre il pilota si stava abituando alla luce della luna.
Era Pasqua, la luna era al punto giusto ed il cielo sereno.
Era il momento che più amava del volo.
Lui, la notte, la luna, la vista che si adattava.
Sotto di lui il mondo, sopra le stelle.
Gli venne in mente la poesia di Giacomo Leopardi, canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Provò un attimo di commozione, poi si riprese.
«Sto invecchiando, disse tra sé e sé».
«Ci aspettano a Shindand. – Disse il consigliere d’ambasciata. – Abbiamo benzina per arrivare fin lì?»
«Non so, ma lì comunque arriviamo…»
Dopo mezzora ripresero le conversazioni con la radio.
«La pista non è illuminata…»
«Nessuno è perfetto.»
«Non stia a scherzare. Cosa posso chiedere di fare?»
«Gli dica di portare degli automezzi a illuminare la pista con i fari controvento. Anzi, no. Li faccia mettere in direzione sud-nord. Non avremo modo di cambiare approccio.»
La benzina finì esattamente un minuto prima dell’atterraggio. Le eliche continuavano a girare, per cui solo il motorista, oltre al pilota, si accorse che giravano spinte dall’aria.
Meglio così: evitate scene di panico.
L’aereo atterrò senza problemi esattamente alle 20.34, ora locale. In Italia erano le 16.04. Aveva avuto la fortuna che c’era un forte vento contrario e l’atterraggio era venuto da manuale.
«Ho sempre riportato l’aereo alla base…»
Subito si fecero attorno i mezzi blindati dell’esercito italiano, a protezione del velivolo.
Qualcuno aprì il portellone e il comandante della Base, colonnello Corradi, salì a bordo.
Salutò militarmente il comandante.
«Benvenuto in Afghanistan, comandante. Ho l’ordine di scortarvi fino al CH-47 Chinook che vi porterà a Herat.»
Scesero dal Gobbo maledetto e si portarono a piedi fino a uno dei due Chinook.
In teatro di guerra vengono sempre fatti volare in coppia.
Un quarto d’ora dopo erano in volo.
Ne approfittò e dormì per tutto il tragitto. Si dorme quando si può dormire. Poco, ma sufficiente: mezzora dopo erano alla base di Herat.
Ad attenderli, il generale comandante Belloni e il suo staff dello Stato Maggiore, compreso il colonnello comandante dell’aeronautica di Herat, colonnello Borgovecchio. C'era anche il comandante del genio, colonnello Di Petri.
«Avevi ragione, – gli disse quest'ultimo. – è un personaggio unico al mondo.»
«Le do il benvenuto a nome del ministro della Difesa. – Disse il generale. – Vi abbiamo fatto preparare un lauto pranzetto alla mensa. Poi riposerete qui nella palazzina comando. Domattina il C130 vi porterà a Abu Dhabi. Vi sarà ad attendervi un Airbus dell’Aeronautica militare.»
Mangiò poco e dormì poco, ma ormai si stava rilassando.
La sua missione, dal punto di vista operativo, era finita.
Il Savoia Marchetti «S.M.79 Sparviero» sarebbe stato smontato con calma e trasportato in Italia con le dovute cautele.
Il volo fino ad Abu Dhabi fu fastidioso. La distanza in linea d’aria era di soli 1.332 km ma, per motivi immaginabili, la rotta prevedeva il sorvolo del Pakistan per evitare i cieli dell'Iran per poi risalire il Golfo Persico costeggiando l’Oman. Totale, quasi tre volte in più.
Anche se sedeva in cabina, nel divano per gli ospiti, non era un bel viaggiare.
Il volo tattico che il pilota doveva fare per ordine del Comando operazioni per evitare eventuali razzi dei talebani, rendeva il tutto insopportabile per chiunque non pilotasse l’aereo.
«Vuole pilotare lei, comandante?» – Chiese il pilota.
Ci pensò, poi ringraziò, sorrise e rispose di no.
Quattro ore dopo atterravano ad Abu Dhabi e guardò i grattacieli che si stagliavano disseminati un po’ in tutta l’area.
Scosse la testa e si preparò a scendere.
Sbarcato, lesse ironicamente ad alta voce la scritta:
«Si prega ti tenere le armi individuali sotto la giacca.»
Le operazioni di trasbordo richiesero un paio d’ore, poi finalmente i nostri personaggi presero posto a bordo dell’Airbus dell’Aeronautica militare.
L’aereo era bianco con il solo numero di identificazione, con la scritta della nostra aeronautica in dimensioni discrete.
Per tutti era un normalissimo aereo commerciale.
Dopo il decollo, i militari portarono da mangiare ai passeggeri. Insalata di pasta fredda, tutto sommato accettabile. Chi lo voleva aveva anche del vino. Provenendo da un paese musulmano, dove l’alcol era difficile da trovare anche alla base, qualcuno gradì un bicchiere perché era come anticipare il ritorno a casa.
Ci vollero un po’ meno di sei ore perché l’aereo atterrasse a Pratica di mare, dove la nostra aeronautica ha una base di 830 ettari. Tenendo conto che un campo da golf 18 buche di ettari ne richiede solo 40, chi l'aveva progettata negli anni Trenta era davvero lungimirante: aveva costruito una delle basi più grandi d’Europa.
Ora aveva una pista asfaltata di due km e mezzo, vietata ai voli commerciali.
Due pullman color oliva vennero a prendere i passeggeri in tuta mimetica e li portarono in un capannone.
Nel giro di una mezzora avrebbero ricevuto i propri bagagli, come in un volo civile.
Lui, Alfierini e i tre passeggeri del Gobbo maledetto, tuttavia, non vennero fatti scendere.
Scaricati i militari, furono portati nei pressi di un altro capannone.
Lì scesero e vennero accompagnati all’interno della costruzione. La luce era diffusa e fecero fatica ad abituare la vista.
Un ufficiale dell’Aeronautica li accompagnò quasi in fondo, poi vennero fermati.
Nessuno fece domande, sapevano che avrebbero capito tutto presto.
E poco dopo, infatti, si aprì una porta ed entrarono degli uomini. riconobbe solo uno di loro, il ministro della Difesa. Il quale gli si fece incontro con un sorriso.
«Comandante, Buona Pasqua!»
«Missione compiuta, signor ministro!» – Gli rispose.
«Il Paese le è immensamente grato…!» – Rispose il ministro.
Poi il diplomatico salito a Karachi prese sotto braccio i due passeggeri caricati a Mumbay e li portò al cospetto del ministro e degli alti ufficiali.
«Signor Ministro – disse un altissimo diplomatico – ecco a voi Massimiliano Latorre e Salvatore Girone.»
I due erano in borghese e pertanto dovettero limitarsi a fare il saluto militare battendo le mani sui fianchi e sbattendo i tacchi.
«Signor Ministro, primo maresciallo Latorre, secondo capo Girone, Comandi!»
Il ministro apprezzò il saluto, ma poi andò ad abbracciare i due fucilieri di Marina.
Erano stati tenuti prigionieri ingiustamente per anni in India e adesso erano finalmente tornati in Italia.
Gli ufficiali presenti lanciarono il berretto in aria e gridarono tre volte “urrah!”
Il Comandante non era mai stato accolto così, neanche al ritorno vittorioso da una missione difficilissima.
Sentì un attimo di commozione salirgli alla gola, ma lo bloccò.

«Sto invecchiando», disse nuovamente tra sé e sé.

Rimase a godersi la scena, notando che tra i presenti c’era anche l’ambasciatore italiano in India e il ministro degli Esteri di un precedente Governo che si era particolarmente accorato alla vicenda dei due Fucilieri di Marina.
Poi andarono tutti al buffet che avevano preparato di fianco e lui si permise di godersi il parmigiano che qualcuno aveva pensato di far arrivare dalla sua provincia. Evitò con cura lo spumante, ma si lasciò gustare un calice di vino bianco fermo gelato. Lesse sull’etichetta che si trattava di un Silvaner, un vitigno che cresce in quota.
«Comandante, dobbiamo parlarle. – Gli disse poi un generale che non conosceva. – Può venire di là in sala comando?»
Entrarono praticamente tutti, ma almeno potevano parlare senza dover gridare.
«Vi ricordo l’impegno che vi siete presi quando venne approvata l’operazione. – (Disse lo stesso generale che li aveva fatti entrare.) – Le cose sono andate così. Il Comandante è andato a Mombay a prelevare l’aereo in veste di unico pilota capace di provarlo in volo. Aveva bisogno di peso e ha fatto salire i due “marò”, che erano lì per caso.»
Delle risatine sfuggirono ai presenti.
«La colpa è stata del comandante, che di sua iniziativa è partito per l’Italia senza fare altre prove. In tutti i casi, nessuna autorità italiana sapeva nulla di tutto questo. E i due marò sono scappati contro la propria volontà.»
L’idea era nata dall’ex ministro e a progettarla era stato un alto ufficiale dei servizi segreti militari, di cui non venne fatto il nome.
Quando era stata prospettata in chiaro l’operazione al comandante, questi aveva accettato di buon cuore, dicendo che anzi avevano aspettato troppo.
L’ambasciatore italiano in India era stato prudenzialmente fatto rientrare. Con gli indiani non si sa mai, quindi non vi sarebbe più tornato. Avrebbe assunto la guida di un’altra ambasciata importante.
Poi venne formulata la versione ufficiale.
Il Ministro della Difesa avrebbe dato l’annuncio al Parlamento, dicendo che non ne sapeva nulla e che condannava l’iniziativa presa a sua insaputa. Avrebbe preso i giusti provvedimenti con i responsabili dell’iniziativa che avrebbe potuto incrinare i magnifici rapporti in essere tra l’Italia e l’India. Era tuttavia certo che la sua autorità non gli consentiva di ordinare ai due fucilieri di Marina di tornare in India.
Qualche giorno dopo l’India, da parte sua, espresse la propria preoccupazione. Punto.

Il Savoia Marchetti S.M.79 Sparviero venne smontato a Shindand e trasportato a Herat. Da lì venne caricato in un container per poi essere consegnato al Museo Caproni circa un mese dopo.
Venne montato e fece bella figura in coppia con l’altro Gobbo maledetto che lo stesso Comandante aveva trovato in Libano.
Un mese dopo il ritorno a casa, gli venne consegnata - rigorosamente per posta - un’altra medaglia, la cui motivazione era doverosamente nebulosa.
Poco dopo lo raggiunse una raccomandata. Gli veniva comunicato che il certificato medico era scaduto e che avrebbe potuto volare ancora sì, ma solo con a fianco un secondo pilota.


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09/02/2016 21:39

Grazie Zio Red , me lo sono gustato con calma......altro che Festival di Sanremo.....

Pasqui

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09/02/2016 23:28

sono Arrivato a:


Erano magnifici.

Aveva ragione il motorista.

Era un’orchestra dell’Alfa Romeo.

Domattina faccio finta di lavorare e al sole mi pappo il resto [SM=x653535]
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Re:
Pasqui65, 09/02/2016 21:39:

Grazie Zio Red , me lo sono gustato con calma......altro che Festival di Sanremo.....

Pasqui

[SM=x653535] [SM=x653535]





non bestemmiare con questo festival a me non piace il festival intendo [SM=x653563]
comunque il racconto e bello solo che molte volte manca il tempo per leggerlo
però red con il racconto ti fa incollare allo schermo per finire la lettura
bravo sei in gamba [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535]


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10/02/2016 09:05

Due sole parole: racconto bellissimo. Grazie red. [SM=x653552]
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10/02/2016 11:16

Montava motore alfa romeo radiale o piaggio?
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Re:
emi74m, 10/02/2016 11:16:

Montava motore alfa romeo radiale o piaggio?



Alfa Romeo 126/128 RC.34 a 9 cilindri da 780/1000 hp.
meno affidabili erano i motori Fiat A.80. I Piaggio P.XI RC.40 erano per la versione trasporto.

nella foto è "il volare basso"


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10/02/2016 22:18

Bella storia! Appassiona e ti coinvolge nella lettura tanto da spingerti a continuare fino in fondo per vedere come va a finire. Forse te l'ho già detto... Dovresti scrivere un libro hai talento. Se mai un giorno dovessi scriverlo per davvero avvisami sarò il primo a comprarlo.
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10/02/2016 22:23

Aspettavo un'altra tua storia, non deludi mai.
Questa mi è piaciuta particolarmente.
Grazie.


Il mio box:
- MV Agusta 350B sport 1972 "Manuela" - la moto del Babbo
- 3 Garelli KL 50 1976/77 - il primo motorino
- HRD 250 1989
- 2 Honda Dominator 1990/91 - i vent'anni
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11/02/2016 10:31

bel racconto Red [SM=x653544] [SM=x653544] leggerti é sempre un piacere [SM=x653561]




Garage:
BMW E30 cabrio '90
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11/02/2016 14:54

....bravo....bravo...bravo....
...tutto molto bellissimo....soprattutto la scelta del protagonista...
...IL GOBBO MALEDETTO...

[SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653535] [SM=x653552] [SM=x653552] [SM=x653552] [SM=x653552] [SM=x653552] [SM=x653552] [SM=x653552] [SM=x653552] [SM=x653552]


... Lunga vita e prosperità ...
11/02/2016 21:35

Grande Red.....mi hai fatto tornare indietro di anni quando mio zio mi raccontava degli aerei su cui saliva per poi paracadutarsi verso l ignoto.
E mi raccontava proprio del gobbo maledetto.
Lui fu uno dei pochi Folgore sopravvissuti a Tobruk ad ai quali gli inglesi diedero l onore delle armi....
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12/02/2016 13:01

Re:
marcodom, 11/02/2016 21:35:

Grande Red.....mi hai fatto tornare indietro di anni quando mio zio mi raccontava degli aerei su cui saliva per poi paracadutarsi verso l ignoto.
E mi raccontava proprio del gobbo maledetto.
Lui fu uno dei pochi Folgore sopravvissuti a Tobruk ad ai quali gli inglesi diedero l'onore delle armi....
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Hai usato alcune parole (per me ) magiche.....

Perdonate l'ulteriore prolissità, vi riporto una lettera di Paolo Caccia Dominioni ed indirizzata a montgomery (minuscolo voluto):

__________________________________________

PAOLO CACCIA DOMINIONI COMANDANTE DEL
XXXI BATTAGLIONE GUASTATORI DEL GENIO


To Fieldmarshal
Bernard Law Montgomery
Viscount of Alamein, K.G.,
G.C.B., G.C.M.G., M.C., D.S.O.
The Army & Navy Club

Mio Lord,
Quando Ella pubblicò le Sue memorie Le scrissi che avrebbe fatto meglio a tacere, perché le rodomontate possono anche piacere nel caporale che poi le deve giustificare a esclusivo rischio della propria pelle, non in un capo arrivato ai massimi onori, e tuttavia compiaciuto di mescolare il forsennato orgoglio a un livore da portinaia parigina. Tutto ciò manca di stile, non è da Lord.
Ho sempre visto che pochi La difendono. Non ha ammiratori, specialmente tra colleghi e dipendenti diretti. Ripenso a quanto mi narrava, pur nell’euforia della recente vittoria, il. maggiore H. P. Waring che Le fu a lungo vicino e che La conosce bene. Egli attribuiva la Sua alterigia, qualificandola di «caricaturale», alla tragedia interna di sapersi fisicamente miserello e rachitico, fatto intollerabile nell’esercito imperiale «Non ha mai visto una fotografia di Monty, diceva Waring, in piedi, presso uomini alti o anche soltanto di statura media? Mai. Sempre tutti seduti o disposti a sapienti dislivelli: ci pensavano i fotografi da campo, abilissimi, e sempre pronti ad archiviare le negative rivelatrici.» Waring continuava a parlare di Lei, sempre bisbetico, autoritario, intollerante e ingiurioso. E raccontò la storia di un Suo famoso gran rapporto ai comandanti, da tenente colonnello in su, che l’indomani dovevano attaccare la nostra linea del sud tunisino, al Mareth. Erano già abbastanza indispettiti d’esser convocati proprio quando più affannoso era il daffare per preparare l’azione: divennero furiosi quando l’attesa, presso la Sua tenda, raggiunse le due ore. Poi Ella uscì, li fece mettere in rango come reclute, e persino eseguire qualche movimento a comando, in ordine chiuso. Erano colonnelli e generali, rossi da scoppiare per l’umiliazione e l’ira, ma silenziosi. Poi iniziò il rapporto con questo discorso: Gentlemen, ci sono tre modi di dare gli ordini. Il primo è usato con gente di intelligenza normale, parlando in tono naturale. Il secondo, riservato a coloro che hanno intelletto lievemente inferiore alla media, segue il sistema della velocità di dettato, dictation speed. Il terzo è invece necessario quando l’intelligenza degli ascoltatori è nettamente inferiore alla media: gli ordini vengono pronunciati due volte, sempre a dictation speed. Questo ultimo sistema ho prescelto oggi per lorsignori, dovendo dare le istruzioni per Lì battaglia di domani.
Pensavo che Waring esagerasse; tutto ciò mi sapeva di pettegolezzo, inaccettabile persino da noi mediterranei fantasiosi, e dicevo tra me: chissà che rospi, caro Waring, ti ha fatto ingoiare. Ma alla luce delle Sue memorie quelle parole mi sono poi apparse mirabilmente veritiere.
Poiché Le scrivo proprio da Alamein, mio Lord, dove Ella fece indubbiamente una importante esperienza nei nostri riguardi, vorrei ragionare un po’ di queste cose. Chiedo venia se parlo di me, modesto capo di un buon battaglione; ma poi ebbi il privilegio di tornare qui e vi ho trascorso complessivamente, tra il 1948 e oggi, circa dieci anni, assieme a Renato Chiodini, mio soldato di allora. Gli inglesi addetti al ricupero delle Salme d’ogni nazione, anziché compiere l’opera iniziata nel 1943, l’avevano considerata esaurita soltanto quattro anni dopo. La riprese il governo italiano, e così molte altre migliaia di caduti italiani, tedeschi e alleati furono ritrovate a cura di noi due. Questo lungo lavoro ci ha fatto capire bene la battaglia, molto meglio delle documentazioni segrete, perché abbiamo estratto dalla sabbia i plotoni, le compagnie e i reggimenti. Non ci è mancato il tempo di imparare la esatta verità.
Abbiamo avuto meno tempo per la lettura: qui eravamo scavatori, muratori, architetti, dattilografi, osteologi, imbianchini, falegnami, topografi, cartografi e soprattutto autisti. Ma qualche cosa abbiamo letto, anche sopra la guerra. Il generale Freddy De Guingand, Suo capo di stato maggiore, menti quando scrisse che l’attacco britannico ad Alamein fu risolutivo verso il mare e dimostrativo a sud. E’ l’affermazione ufficiale, ribadita anche nei documenti a firma di Lord Alexander e Sua. Essa mi ha fatto, ogni volta, fremere di sdegno perché ambedue gli attacchi furono risolutivi.
A nord furono travolti, la notte stessa sul 24 ottobre 1942, due battaglioni tedeschi e tre italiani, ma una resistenza furiosa, a tergo, per otto giorni impedì a Lei di avanzare nonostante la documentata proporzione di uno a sei in Suo favore.
Al centro, mio Lord, fu piccola giostra, ma quando quel settore ripiegò, la Bologna e l’Ariete Le dettero molto lavoro, come gliel’avevano dato, a nord, la Trento, la Trieste e la Littorio.
A sud il Suo generale Horrocks, comandante il XIII corpo d’armata, avrebbe dunque avuto da Lei l’ordine di fare un’azione dimostrativa. Un ordine che vorrei proprio vedere con questi occhi miei. Laggiù non c’era bisogno che Ella cercasse la sutura tra tedeschi e italiani, in modo di attaccare solo i secondi, cioè quelli che non avevano voglia di combattere. Pensi che fortuna, mio Lord: niente tedeschi, tutti italiani, proprio come voleva Lei. La Folgore, con altri reparti minori, tra cui il mio.
Nel Suo volume Da Alamein al fiume Sangro, Ella ebbe la impudenza di affermare che Horrocks trovo un ostacolo impensato, i campi minati: e toglie implicitamente qualsiasi merito alla difesa fatta dall’uomo; vuoi ignorare che quei campi erano stati creati anni prima dagli stessi inglesi, che vi esistevano strisce di sicurezza non minate e segrete, a noi ignote, che permisero ai Suoi carri di piombarci addosso in un baleno, accompagnati da fanterie poderose. Eppure l’enorme valanga, per quattro giorni e quattro notti, fu ributtata alla baionetta, con le pietre, le bombe a mano e le bottiglie incendiarie fabbricate in famiglia, «home made». La Folgore si ridusse a un terzo, ma la linea non cedette neppure dove era ridotta a un velo. Nel breve tratto di tre battaglioni attaccati, Ella lasciò in quei pochi giorni seicento morti accertati, senza contare quelli che furono ricuperati subito e i feriti gravi che spirarono poi in retrovia. E questa è strage da attacco dimostrativo? Come può osare affermarlo? Fu poi Lei a dichiararlo tale, dopo che Le era finalmente apparsa una verità solare: mai sarebbe riuscito a sloggiarci dalle nostre posizioni (che abbandonammo poi senza combattere, d’ordine di Rommel, ma questa è faccenda che non riguarda Lei), e preferì spedire il Suo Horrocks a nord, per completare lo sfondamento già in atto. La sua malafede, mio Lord, è flagrante. Ella da noi le prese di santa ragione. lo che scrivo e i miei compagni fummo e restiamo Suoi vincitori.
Eppure Lei non è sempre stato in malafede per quanto ci riguarda.
Nel luglio 1943, durante lo sbarco in Sicilia, erano in servizio presso il 230 ospedale generale scozzese in Palestina quattro medici italiani prigionieri, il capitano Mauro, i tenenti Rossi, Garbarino e Parvis. Le notizie, presentate velenosamente dalla stampa locale, avevano assai avvilito i quattro ufficiali. Il colonnello medico direttore, un bravo scozzese, volle consolarli, e dopo aver parlato delle fatali vicende di ogni conflitto, disse: «Voglio offrirvi, a titolo riservatissimo, un elemento di conforto». E mostrò un documento segreto, intitolato Storia dell’Ottava Armata, a firma Montgomery. Era un opuscolo di ottanta pagine, diramato soltanto a comandi ed enti molto elevati. Narrava gli avvenimenti di guerra, e parlava a lungo delle truppe italiane, con la massima obiettività. Criticava Rommel «che aveva sacrificato» le nostre fanterie, mentre avrebbe potuto trarne ancora grande aiuto. Citava la Folgore come una delle più eroiche divisioni del mondo e ricordava con ammirazione, tra le altre, anche la Brescia.
Quel documento, del quale voglio qui ringraziarLa, rende però ancora più ingiusto e odioso il suo atteggiamento successivo.
Ma oggi, mio Lord, non è giorno di asprezza. È la festa del nostro battaglione, e inoltre l’anniversario ventesimo di quando esso, per il primo, espugnò la cinta fortificata di Tobruk e vi irruppe. Qui regna il solito silenzio gigantesco del deserto: sappiamo che al massimo, sulla vicina litoranea, passerà qualche autocarro isolato, senza fermarsi. Qui non verrà nessuno.
Siamo soli, Chiodini ed io, e tuttavia Ella ci trova in uniforme e cappello alpino, come sempre da anni, per onorare i morti, e oggi in modo particolare, per la ricorrenza che ho detto e perché è l’ultimo giorno nostro a Quota 33. Ci mettevamo in borghese quando veniva gente che non gradivamo.
Peccato che Ella sia astemio: non v’è periodico che non abbia menzionato questa Sua prerogativa. Avremmo stappato l’ultima bottiglia d’una cantina che mai conobbe splendori, e L’avremmo invitata a un brindisi per il nostro battaglione e per la Sua armata. Le rivolgiamo invece un altro invito, e La preghiamo di salire sulla jeep. Venga, mio Lord, stiamo per iniziare un giro che La interesserà.
Vuoi sapere che cosa stia mormorando Chiodini al momento di mettere in moto? Dice: B’ism’Illah ul rohmàn ul rahìm, nel nome di Allah onnipotente e misericordioso, primo versetto del Corano. Abbiamo preso quest’abitudine dai beduini, che mai iniziano un viaggio, un lavoro, una rapina, una notte nuziale senza pronunziare le sacre parole. Non importa se Chiodini le articoli con l’accento di Porta Ticinese, perché il suo cuore è puro. Scendiamo il pendio sassoso fino alla litoranea, filiamo a buon passo sull’asfalto, verso Alessandria, ma per nove chilometri soli; imbocchiamo la Pista Rossa, fondo infernale perché gli americani venuti dai Texas alla ricerca del petrolio hanno massacrato e profanato l’intero deserto con certi loro colossali autotreni, purtroppo sopravvissuti nonostante l’attraversamento di infiniti campi minati tuttora pericolosi. Non si preoccupi: siamo vecchi ambedue, Lei tre quarti di secolo, io due terzi; ma la nostra solidità è intatta.
Percorriamo un rettifilo di ventinove chilometri, tra-versiamo i costoni di Miteyryia, di Deir el Abyiad, di Deir el Qatani e giunti a Dweir el Tarfa volgiamo a est, ci incanaliamo nello uadi di Qaret el Abd, sbuchiamo a Bab el Qattara sulla Pista dell’Acqua, proseguiamo verso Deir Alinda e Deir el Munassib. Lasciamo la jeep e percorriamo duecento metri a piedi. Saliamo un costoncino. Qui era il 187° reggimento Folgore: qui morirono moltissimi, che portavano nomi illustri e oscuri. È appunto uno tra i più modesti che Le vogliamo ricordare, il paracadutista Gino Trazzi, scomparso tra queste pietre e il centro di fuoco ancora riconoscibile sotto quei due cespugli disseccati. Ora proseguiamo verso quella curiosa nave di roccia a due gobbe, Haret el Himeimat. L’orizzonte è molto più ampio, perché siamo saliti: queste carregge che Lei vede nella sabbia sono ancora quelle del 1942. Qui passò, ritornando combattendo dalla corsa dei sei giorni, il III gruppo corazzato lancieri di Novara: sopra questo spiazzo di pietroni levigati, con poca sabbia, lasciò il caporale di cavalleria Paolo Flachi, milanese.
Ora è tempo di tornare: abbiamo percorso ottanta-cinque chilometri, ma ce ne manca ancora un centinaio, perché l’itinerario di ritorno è un po’ più lungo. Rifacciamo la nostra pista fino a Bab el Qattara, poi scendiamo lungo la Pista dell’Acqua fino al costone del Ruweisat dove si è così accanitamente lottato. La posizione domina tutto il campo di battaglia, a nord e a sud. Vede questo canaletto scavato parallelamente alla pista? È opera vostra, dell’anno 1941: doveva accogliere la tubazione d’acqua per il vostro presidio al Passo del Carro, ma non faceste in tempo a collocarla: arrivammo prima noi. In quel punto esatto, dove io getto una pietra, la notte sul 31 agosto 1942, dentro lo scavo, ramparono all’assalto i guastatori della prima compagnia, 31° battaglione: e Giuseppe Celesia palermitano, «boy», come direbbe Lei, del tenente Enrico de Rita, si buttò davanti il suo ufficiale e rimase ucciso da una pallottola in piena fronte.
Dopo il Ruweisat facciamo una cosa audace e tagliamo con rotta a 290 gradi, fuori pista. Non abbia timore, mio Lord: conosciamo il paesaggio metro a metro, e sappiamo anche dove sono le mine tuttora presenti, circa un milione sopra i sei milioni e mezzo che ebbimo l’onore di collocare assieme, amici e nemici, vent‘anni or sono. Traversiamo Deir el Shein, nome di raccapricciante memoria, e seguiamo l’andamento delle linee lungo la curva di livello 25, sinuosa e malfida, fino alla zona che voi chiamavate Kidney Ridge. Come vede, mio Lord, non è più rimasto un chiodo: quando Ella fu qui nel 1954, il campo di battaglia poco era mutato dal tempo di guerra. Qui si stendeva il gran reticolato che recingeva la sacca minata detta Genova da noi e «J» dai tedeschi: non ci eravamo sempre messi d’accordo sulla toponomastica, e forse anche su qualche altro argomento, ma questo è affar nostro, che non riguarda Lei.
L’ho portata nella piana contigua al Kidney Ridge perché vi sono caduti, tra altri mille, quattro bravi soldati che Le voglio nominare: il fante Ernesto Fogliasso, torinese, del 62° fanteria Trento, il carrista Ugo Passini bolognese, del 133° reggimento Littorio, il bersagliere Emilio Miotello padovano, del 12° reggimento, e l’artigliere senese Dante Martinelli del 3° celere Duca d’Aosta. Sono morti nello spazio di quarantott’ore, più o meno allo stesso posto, benché fossero di così disparate unità: e questo conferma quanto accanita sia stata la baraonda di quel finale ottobrino.
Ora è tempo di superare la ferrovia e tornare alla nostra base di Quota 33, dove anche da qui vediamo sventolare il tricolore che viene issato soltanto nelle grandissime occasioni. E Le dirò perché ho voluto che Lei vedesse il posto dove morirono Trazzi, Flachi, Celesia, Fogliasso, Passini, Miotello e Martinelli. Appartenenti a sette armi e corpi diversi del regio esercito, nessuno dei sette aveva gradi elevati, nessuno ebbe, che sappia, medaglie: morirono oscuri, e spinsero la modestia al punto che quando ne cercammo le spoglie non trovammo nulla. Di nessuno. Sette irreperibili.
Eccoci di nuovo a Quota 33. Ma prima di separarci. mio Lord, abbia la compiacenza di venire con noi qui dove si stendeva l’immenso rettangolo delle croci italiane e tedesche, oggi purtroppo sostituito da assai meno suggestivi sacrari (quello italiano è opera mia). Il terreno ormai è uniforme e le tracce delle croci sono scomparse. Ma voglio indicarLe il posto dove erano sepolti due morti assai ben conosciuti, e decorati della medaglia d’oro che corrisponde alla Vostra Victoria Cross: Livio Ceccotti capitano pilota, ucciso mentre scendeva in paracadute dopo l’abbattimento del suo aereo, e Umberto Novaro capitano di vascello, comandante l’incrociatore Bartolomeo Colleoni, raccolto morente in mare dai marinai inglesi dopo che la sua nave era stata affondata in combattimento, morto ad Alessandria delle ferite riportate, da Voi sepolto con tutti gli onori, e poi portato qui ad Alamein perché maggior gloria venisse al suo nome: un bel gesto da parte inglese.
Perdoni, mio Lord, se ora voglio abusare della mia doppia qualifica di anfitrione attuale e antico vincitore non assistito dal potente alleato germanico. Io La invito a mettersi sull’attenti davanti ai nove nomi che ha sentito, sette quasi sconosciuti e due gloriosissimi: io La prego di salutare. Ma intendiamoci: un saluto regolarmente britannico a scatto e tremolo, non quello ostentatamente trasandato, da superuomo, che Le vidi fare alla Sua stessa bandiera il 23 ottobre 1954, quando Ella inaugurò il cimitero imperiale di Alamein. Lo vidi bene, ero a pochi metri da Lei, con Chiodini, unici invitati italiani tra lo stuolo dei generali britannici e del Commonwealth, ed era giusto che agli ospiti italiani fosse assegnato quel posto dopo tanti anni che anche le Salme britanniche dimenticate nel deserto, in gran numero, ritrovavano un posto d’onore grazie alla cura, e con qualche rischio, del 31° battaglioni guastatori d’Africa.

Written at Alamein, Hill 33
June 20th 1962

Your Lordship’s
Most humble, most obedient
Servant to command
Sillavengo, Lt. Col.
Former O.C. 31th Combat Sappers Bataillon
Royal Italian Army


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Zio Roscio hai deciso che devo star seduto all'ombra di un muretto col sole che mi accarezza e mandare aff... il lavoro ??

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